Il caso “DESI”
Al pari di ogni altro successo “all’italiana” che si rispetti, non può non meritare una notevole attenzione anche il caso relativo alla pubblicazione del DESI (The Digital Economy and Society Index) 2021: l’indice creato dalla Commissione europea per misurare il grado di diffusione digitale nei paesi dell’Ue.
Infatti, da qualche giorno – e al netto di ogni crescente aspettativa – tra gli attori del palcoscenico dell’innovazione, è stato finalmente possibile tirare le somme riguardo i tanto attesi risultati dei vari indicatori di uno dei più importanti monitoraggi sullo stato di diffusione della digitalizzazione in Europa.
A riguardo sembrerebbe che in quest’edizione, forse anche “grazie” all’effetto pandemia – come sostenuto da più voci – l’Italia abbia visto un incremento della propria posizione, passando complessivamente (in un ranking totale di 27 Paesi europei) dal venticinquesimo al ventesimo posto in classifica e rappresentando, probabilmente per i più ottimisti, materia di vanto collettivo.
Eppure, analizzando con attenzione sia i criteri metodologici seguiti per la redazione dei vari parametri, sia il merito sostanziale di alcuni indicatori, diventano quasi lapalissiane le premesse riferite al DESI come “caso di successo all’italiana” dato che i risultati non sembrano nei fatti migliorare, anche perché la Commissione europea, quest’anno, ha scelto di conformarsi al rispetto delle principali iniziative politiche che ci si augura avranno un impatto sulla trasformazione digitale del prossimo decennio come, ad esempio, il capitale umano, la connettività, l’integrazione delle tecnologie digitali e i servizi pubblici digitali.
Caso n.1: che fine ha fatto l’Italia digitale?
Anche questa volta la moderna rincorsa alla giusta formula per la trasformazione digitale resta ancorata alle aspettative di un gap culturale che si fatica ad arginare. Solo il 42% delle persone di età compresa tra i 16 e i 74 anni possiede le competenze digitali di base e la percentuale di specialisti ICT in Italia è pari al 3,6% dell’occupazione totale – ancora al di sotto della media europea (4,3%) – rispetto, ad esempio, alla quota di specialisti dei Paesi scandinavi che vantano, invece, una significativa distribuzione di genere che prolifera nell’ambito di un mercato fertile in cui più del 50% delle aziende continua a cercare esperti da assumere.
Eppure, il problema relativo all’alfabetizzazione digitale della popolazione – da cui deriva il corollario della mancanza di specialisti – non rientra di certo tra le novità degli ultimi tempi. Si discute da anni proprio della necessità di avviare iniziative volte a realizzare concreti e diretti settori di apprendimento. Tanto che anche il livello normativo ha avvertito l’esigenza di esprimersi, prevedendo una specifica disposizione, l’art 8 CAD, che enuncia, formalmente e sostanzialmente, la necessità di “promuovere iniziative volte a favorire la diffusione della cultura digitale tra i cittadini(…)”, ma è ovvio che tale obiettivo non potrà mai del tutto esser conseguito fin quando gli utenti non saranno davvero in grado di utilizzare gli strumenti offerti dal digitale. Magari per evitare che le parole restino “lettera morta”, sarebbe il caso di abbandonare la nave dell’improvvisazione e puntare su nuove mete di collaborazione tra tutti gli stakeholder, come valore aggiunto del processo decisionale, e scongiurare così la profetica affermazione di Harari quando dice che “la gente è più felice di elargire la propria risorsa più preziosa – i dati personali – in cambio di servizi di posta gratuita e video di gattini”
Caso n.2: ma il sud ce l’ha il Wi-Fi?
Con un punteggio pari al 42,4% l’Italia si colloca al ventitreesimo posto in termini di connettività tra gli Stati membri dell’UE.
Nel corso del 2020 l’Italia ha chiaramente compiuto dei passi avanti in termini sia di copertura che di diffusione delle reti di connettività, offrendo servizi capaci di raggiungere anche 1 Gbps. La copertura del 4G in questo caso sembra rispecchiare quella europea e la preparazione al 5G sembrerebbe addirittura superiore, sebbene alcune zone abitate fatichino ancora a trovare la giusta strada per un’adeguata connessione. Ma gli indicatori, in questo caso, lasciano ben sperare, e d’altronde si sa, la Rete è in grado di arrivare ovunque.
Caso n.3: (dati) tua, vita mea
Lo stato dell’arte connesso all’indicatore dell’integrazione delle tecnologie digitali, sembra orientare una spinta propulsiva – pur non raggiungendo ancora il podio – verso il settore privato (69% ben al di sopra della media UE del 60%). Ciò che emerge dai risultati è infatti che la maggior parte delle PMI italiane vanta una fortissima intensità digitale di base, soprattutto nell’uso della fatturazione elettronica e dei servizi Cloud (in crescita al 38%). Sarà forse merito della nuova filosofia “imprenditoriale” che poggia le nuove prospettive sul cd. “agile development”?
Tuttavia, l’uso dei big data e delle tecnologie basate sull’AI restano ancora molto bassi, dimostrando, chiaramente quanto i fattori culturali incidano anche nell’elaborazione di strategie e di visioni anche nel campo del settore privato.
Caso n.4: ti mando un fax?
Sul versante dei servizi pubblici digitali l’Italia vanta il podio, invece, della lentezza monomaniaca che caratterizza da sempre l’apparato pubblico.
Infatti, la percentuale di utenti che ricorrono ai servizi e-gov (34%) fatica notevolmente ad adeguarsi agli standard europei (64%), dato che, tra l’altro, non sembra neppure sorprendere se si considera che nel nostro Paese è alquanto usuale applicare modelli burocratici analogici ai diversi comparti amministrativi, creando così il paradossale risultato di complicare addirittura la vita all’utente fruitore.
Eppure, in punta di diritto, le norme specificamente dedicate alla realizzazione di servizi pubblici impeccabili esistono e sono state avvertite come prioritaria necessità: per citarne alcune, si pensi alla L. 4/2004 – Legge Stanca – e art 7 CAD in tema di accessibilità o l’art 65 CAD connesso alla possibilità di presentare istanze e dichiarazioni pubbliche per via telematiche – terreno argilloso nei rapporti tra pubblico e privato.
In conclusione, ciò che il “caso DESI” ci ha insegnato (ma forse lo sapevamo già…) è che la Digital Era Governance implica una nuova concezione e un nuovo cambio di paradigma finalizzato a un serio programma di cooperazione con gli utenti – come declinazione del principio di sussidiarietà – per costruire nuovi modelli di trasparenza, alfabetizzazione e ripensamento degli obiettivi: ripartendo, magari, dal rimodellamento delle rigidità delle offerte formative che faticano ancora ad adeguarsi alle richieste del mondo del lavoro e per evitare, soprattutto, che il volto della “transizione al digitale” sia ricercato tra i meandri di ciò che si può (e di ciò che non si può) fare in piena pandemia.
Federica Giaquinta