Screenshot: la nuova frontiera della prova legale alla “prova” dei social
A fronte dell’utilizzo sempre più pervasivo delle chat come mezzo di comunicazione, la Corte di Cassazione è stata recentemente chiamata a pronunciarsi sulla valenza del cd. screenshot come mezzo di prova ai fini della eventuale sussistenza di un reato. Già da anni, la giurisprudenza si è interrogata sulla possibilità di attribuire, in sede giudiziale, valore alle immagini raffiguranti parti di conversazioni tra più soggetti, anche al fine di rendere più celere lo svolgimento della raccolta delle prove.
Prima di entrare nel merito della vicenda è, tuttavia, opportuno previamente definire il concetto di screenshot. Con tale termine si identifica una “schermata o porzione di immagine copiata dallo schermo di un computer, un tablet, di uno smartphone, catturata da un software”, nonché “la copia di un’immagine che viene salvata come file o altro oggetto indipendente dall’originale, e che può rappresentare anche solo una porzione dello schermo”.
Le prove, invece, sono quegli strumenti dai quali il giudice può desumere direttamente i fatti che sono alla base della pretesa giudiziaria finalizzata a dimostrare il proprio diritto in giudizio e che, nel caso di processo penale, servono a determinare la responsabilità penale dell’imputato oppure a confutarla.
Per tali ragioni e tenuto conto degli ordinari criteri forensi esistenti sembrerebbe, quindi, che lo screenshot – come elemento di prova – non assurga al rango di prova secondo le classiche categorie giuridiche di riferimento, poiché si identificherebbe solo come una configurazione materiale della copia di un’immagine che potrebbe, per la sua stessa natura, essere manipolata, compromettendo la fondatezza del convincimento del giudice.
Invero, come rivelante novità emersa nella concreta prassi processuale, è opportuno soffermarsi sulla recente pronuncia della Suprema Corte – sentenza n. 24600/2022 – che ha affrontato il tema della prova del reato di diffamazione commesso con le nuove modalità di comunicazione a mezzo del noto social network Facebook.
Nel merito, la Corte d’Appello confermava la responsabilità penale di tre atlete che avevano accusato, tramite una chat di Facebook, la giudice della gara di favorire le sportive da lei allenate, un membro del consiglio nazionale della federazione di appartenenza e di perseguire i propri interessi personali incidenti sulle scelte economiche riguardanti la stessa federazione. I messaggi erano poi stati fotografati tramite alcuni screenshot da parte di altre atlete che partecipavano alla chat ed erano stati portati alla conoscenza dei diretti interessati.
In sede di ricorso alla Suprema Corte si censurava la sentenza del giudice di merito nella parte in cui non avrebbe tenuto conto della inutilizzabilità delle conversazioni in chat riprodotte dagli screenshot, escludendo in ogni caso la natura denigratoria delle espressioni ivi utilizzate, in quanto riconducibili ad una mera rappresentazione del diritto di critica costituzionalmente tutelato.
Tuttavia, i giudici della Cassazione – prendendo atto della circostanza per cui la diffusione sempre più pervasiva dei social media e del conseguente aumento delle occasioni di connessione e di condivisione in rete attraverso i social, anche nell’ottica di arginare il fenomeno della graduale crescita degli illeciti commessi dagli internauti – hanno confermato la valenza gravemente lesiva della reputazione, del prestigio e della credibilità delle persone offese cagionata dai messaggi incriminati condivisi all’interno della chat, ove dunque venivano veicolate espressioni fortemente diffamatorie, in alcun modo scriminate dalla garanzia del diritto di critica.
A tal proposito, i giudici della Suprema corte, richiamando un precedente principio (sez. 3, n. 8332 del 06/11/2019, dep. 2020, R., Rv. 278635) ritengono che “sono da ritenersi pienamente utilizzabili, in quanto legittima ne è l’acquisizione come documento, i messaggi sms fotografati dallo schermo di un telefono cellulare sul quale gli stessi sono leggibili in quanto non è imposto alcun adempimento specifico per il compimento di tale attività, che consiste nella realizzazione di una fotografia e che si caratterizza soltanto per il suo oggetto, costituito appunto da uno schermo sul quale sia visibile un testo o un’immagine.”
Secondo gli Ermellini, inoltre, gli screenshot non sono da considerare neppure alla stregua della nozione di “intercettazione” regolata dagli artt. 266 e segg. c.p.p., in quanto “la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, o comunque sia ammesso ad assistervi, costituisce forma di memorizzazione di un fatto storico, della quale l’autore può disporre legittimamente, anche a fini di prova nel processo secondo la disposizione dell’art. 234 c.p.p.”.
Tale principio di diritto esclude quindi che si verta in tema di intercettazioni allorché le conversazioni, o meglio le comunicazioni verbali, come quelle relative alle chat, risultino nella disponibilità dei soggetti legittimati a parteciparvi e dunque pienamente utilizzabili.
Tuttavia, probabilmente, il punto più controverso, non rilevato dalla sentenza della Suprema Corte, riguarda proprio la possibile alterazione dolosa dello screenshot. È noto, infatti, che a causa della natura stessa degli screenshot, questi siano manipolabili e di conseguenza suscettibili di falsificazione.
In casi come questi, quindi, sarebbe opportuno applicare le norme sulla alterazione dolosa delle prove legali? Quali sono i mezzi per identificarli? Ma, soprattutto, in sede processuale esistono le competenze per smascherarne la contraffazione?
È chiaro che la decisione degli Ermellini, per quanto innovativa, lascia aperti dubbi e interrogativi non di poco conto.
Probabilmente, l’opzione preferibile sarebbe quella di ricorrere all’applicabilità degli articoli 201 e seguenti del D.lgs. 82/2005 “c.d. Codice dell’Amministrazione Digitale”, a tenore dei quali una “prova digitale” potrà ritenersi assolutamente genuina, sia formalmente che sostanzialmente, solo laddove la stessa sia firmata digitalmente e marcata temporalmente.
Federica Giaquinta
1 Art 20, comma 1 bis “il documento informatico soddisfa il requisito della forma scritta e ha l’efficacia prevista dall’articolo 2702 del Codice civile quando vi è apposta una firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata o, comunque, è formato, previa identificazione informatica del suo autore, attraverso un processo avente i requisiti fissati dall’AgID ai sensi dell’articolo 71 con modalità tali da garantire la sicurezza, integrità e immodificabilità del documento e, in maniera manifesta e inequivoca, la sua riconducibilità all’autore”.