Caso “Penitenziario di Santa Maria Capua Vetere”: quali profili privacy?
Il 5 aprile 2020, un gruppo di detenuti del reparto “Nilo” dell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, organizzava una protesta volta a richiedere l’accesso a mascherine e ad altri dispositivi di protezione delle persone detenute, al fine di ridurre il rischio di contagio da Covid-19, inscenando una protesta del tutto simile a quelle organizzate nelle settimane precedenti in molte altre carceri italiane, con l’unico scopo di chiedere più tutele contro il rischio di focolai in strutture chiuse e sovraffollate.
Il giorno dopo, circa 300 tra agenti di polizia penitenziaria del carcere ed esterni – sovrintendenti, ispettori, commissari e appartenenti al Gruppo di supporto agli interventi (una struttura dipendente dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria) –, con lo scopo di dare una “energica” risposta alle proteste, effettuavano ciò che la magistratura inquirente ha qualificato come «perquisizioni personali arbitrarie e abusi di autorità»: invero, dopo mesi di indagini, la procura di Santa Maria Capua Vetere il 27 giugno scorso ha chiesto ed ottenuto dal giudice per le indagini preliminari l’applicazione di 52 misure cautelari a carico degli agenti intervenuti per “soffocare” le proteste.
Cosa sia realmente accaduto è, purtroppo, noto a tutti: basta utilizzare un qualsiasi motore di ricerca per imbattersi nella visione dei video estratti dalle telecamere di sorveglianza a circuito chiuso installate nel penitenziario che, presumibilmente, sono stati acquisiti dagli inquirenti, unitamente agli altri elementi probatori attestanti la ferocia di quella che è stata appellata come una vera e propria “mattanza”.
Probabilmente, anche al fine di arginare l’ulteriore diffusione di queste immagini, in data 3 luglio 2021, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha annunciato di voler presentare un esposto all’Autorità nazionale di controllo (Garante) in materia di protezione dei dati personali, esprimendo preoccupazione per l’eccessiva esposizione mediatica degli indagati, in ragione delle funzioni svolte in ambito carcerario e dei rischi di eventuali ritorsioni.
Il Presidente dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, Carlo Verna, dopo un colloquio telefonico con la Ministra della Giustizia Cartabia, ha fatto pertanto appello alla «responsabilità» giornalistica al fine di «non divulgare volti e nomi di agenti che potrebbero essere estranei alla vicenda», in quanto è necessario ricordare che «un conto sono i fatti complessivamente percepiti, un altro le responsabilità penali individuali tutte da accertare», in virtù della presunzione di non colpevolezza sancita dalla nostra Carta costituzionale.
La motivazione di fondo che ha spinto il legislatore comunitario ad attuare una riforma in materia di protezione dei dati personali, prima regolata dalla direttiva “madre” 95/46/CE, è racchiusa, sostanzialmente, nei considerando numeri 6 e 7 del Regolamento europeo (GDPR) in cui si legge che «la tecnologia attuale consente tanto alle imprese private quanto alle autorità pubbliche di utilizzare dati personali, come mai in precedenza, nello svolgimento delle loro attività […] è opportuno che le persone fisiche abbiano il controllo dei dati personali che li riguardano e che la certezza giuridica e operativa sia rafforzata tanto per le persone fisiche quanto per gli operatori economici e le autorità pubbliche».
La videosorveglianza – in qualunque ambito venga applicata (cfr. linee guida 3/2019 dell’European Data Protection Board) – rappresenta un vincolo, una limitazione e un condizionamento per gli individui: la raccolta, la registrazione, la conservazione e, in generale, l’utilizzo di immagini configura un “trattamento” di dati personali secondo la definizione data dall’art. 4, par. 1, n. 2 del GDPR.
Per ogni trattamento, è individuabile un titolare (art. 4, par. 1, n. 7 del GDPR) le cui responsabilità sono delineate nel successivo art. 24 del medesimo testo normativo; in particolare, il titolare del trattamento mette in atto misure tecniche e organizzative adeguate per garantire, ed essere in grado di dimostrare, che il trattamento è effettuato conformemente al regolamento, nonché, in virtù del successivo art. 25, adotta le misure idonee a garantire un livello di sicurezza adeguato al rischio di violazione dei dati.
Nella vicenda che ci occupa, con ogni probabilità, il primo titolare del trattamento a venire in rilievo è proprio l’Amministrazione penitenziaria, circostanza che induce a ritenere possibili eventuali depistaggi e/o inquinamenti probatori dopo le violenze, tant’è vero che, secondo l’ipotesi accusatoria – per come è emerso dall’ordinanza di custodia cautelare –, ad essere coinvolti sono anche i vertici dell’amministrazione penitenziaria, quantomeno in ambito regionale.
Altra considerazione da fare attiene all’ambito di applicazione materiale del Regolamento europeo. L’art. 2, par. 2, lett. d) dispone, infatti, che il regolamento non si applica ai trattamenti di dati personali effettuati dalle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento o perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, incluse la salvaguardia contro minacce alla sicurezza pubblica e la prevenzione delle stesse.
Tuttavia, ciò non esime da responsabilità i predetti soggetti, in quanto il D.lgs. n. 51/2018, attuativo nell’ordinamento interno della direttiva n. 680/2016/UE, impone infatti alle stesse autorità, nell’esercizio dei loro poteri e svolgimento dei relativi compiti, il rispetto dei medesimi principi sanciti dal GDPR, nonostante il limite previsto dal comma 6, art. 37 del D.lgs. n. 51/2018.
Dunque, un ulteriore profilo di responsabilità potrebbe essere ravvisato in capo a chi, come già accaduto in passato, abbia consentito la “dispersione” del materiale oggetto di indagine.
Tuttavia, constatata la difficoltà di agire in via preventiva per arginare tali distorsioni del sistema, non resta che analizzare un ultimo profilo di responsabilità, ovvero quello in capo a coloro che hanno contribuito alla diffusione delle immagini incriminate.
A questo punto, il quadro normativo delineato va, necessariamente, coordinato con l’articolo 85 del GDPR, rubricato “Trattamento e libertà d’espressione e di informazione”, inserito nel capo IX che detta le disposizioni relative a specifiche situazioni di trattamento.
Per quanto riguarda l’ordinamento interno, l’attività giornalistica trova la sua disciplina nel Titolo XII del D.lgs. n. 196/2003, e relativo allegato A.1, come modificato dal D.lgs. n. 101/2018 di recepimento del regolamento europeo,
Dal combinato disposto degli articoli 136, 137 e 139 si ricava che l’attività svolta deve essere finalizzata all’esclusivo perseguimento delle finalità, rispettando le relative regole deontologiche, valutando inoltre se l’essenzialità della informazione, riguardo ai fatti di pubblico interesse, potesse essere soddisfatta anche attraverso l’utilizzo di altri mezzi, senza ricorrere, necessariamente, alla diffusione delle immagini, tenendo altresì presente che, in base all’art. 139, comma 4, in caso di violazione delle prescrizioni contenute nelle regole deontologiche, il Garante può vietare il trattamento ai sensi dell’articolo 58 del Regolamento europeo.
Inoltre, al di là della tutela dei diritti dei soggetti indagati, occorre considerare che la vicenda in commento non ha coinvolto solo i “carnefici”, ma anche le “vittime”, sottoposte quindi ad una ulteriore forma di “spettacolarizzazione del dolore”.
A nulla, quindi, è servito il monito del Garante del 17 giugno 2021, relativo ad un’altra drammatica vicenda che ha interessato il nostro Paese, ovvero la tragedia del Mottarone; in quel caso, il Garante ha chiarito che i video poco aggiungevano, per quanto riguarda l’informazione dell’opinione pubblica, alla ricostruzione della dinamica dei fatti, già ampiamente trattati dai media.
Dunque, valutata l’essenzialità dell’informazione, non si deve mai rinunciare ad un’accurata valutazione circa i mezzi da utilizzare per diffondere la notizia.
L’obiettivo non è certo quello di snaturare l’attività del giornalista, attribuendogli il compito di indagini giudiziarie (le quali, per altro, potrebbero essere sempre smentite dall’esito finale del processo) o di fatto impedire l’esercizio della cronaca giudiziaria fino all’esito della sentenza definitiva, poiché solo con quest’ultima si ha la certezza della verità o meno di quanto confluito nel processo: tuttavia, occorre sempre bilanciare l’interesse all’informazione con la necessità di proteggere i soggetti coinvolti dalle aggressioni morali ingiustificate che minano le possibilità di estrinsecazione della propria personalità, compromettendone la reputazione (cfr. la recentissima sentenza della Corte Costituzionale n. 150/2021).
Tant’è vero che già l’art. 15 della legge n. 47/1948 sulla stampa vieta la pubblicazione di immagini a contenuto impressionante o raccapricciante, disponendo che quanto sancito dall’art. 528 c.p. (in tema di pubblicazioni e spettacoli osceni) si applica anche nel caso di stampati che descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale e l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti.
Inoltre, il “Testo unico dei doveri del giornalista”, in vigore dal primo gennaio 2021, prescrive all’art. 3, lett. c) che il professionista deve considerare il reinserimento sociale come un passaggio complesso, che può avvenire a fine pena oppure gradualmente, dovendo obbligatoriamente utilizzare termini appropriati in tutti i casi in cui un detenuto usufruisca di misure alternative al carcere o di benefici penitenziari. Lo stesso vale, chiaramente, se un processo non è ancora iniziato, in quanto il giornalista è tenuto a rispettare, sempre e comunque, il diritto alla presunzione di non colpevolezza e curare che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi (art. 8, lett. c) ed e) del Testo unico dei doveri del giornalista).
Fatto salvo il clamore della vicenda, le osservazioni su esposte non rappresentano nulla di nuovo, anzi!
Basta leggere – e si consiglia – la Relazione annuale del Garante 2020, in cui, con particolare riferimento all’attività giornalistica, viene chiarito che «occorre ricordare che il giornalista ed il suo editore sono chiamati, anteriormente alla pubblicazione di informazioni, a condurre una valutazione in ordine alla correttezza del relativo trattamento sulla base delle norme che regolano il settore e che, proprio al fine di non comprimere l’esigenza informativa connessa alla circolazione di certi contenuti, già contengono in sé una maggiore flessibilità rispetto a quanto invece avviene con riguardo ad altre tipologie di trattamento. Ma ciò non consente la diffusione di notizie senza alcun filtro, adducendo quale giustificazione, come spesso si è verificato, la circostanza che le medesime notizie siano già state rese disponibili in rete da altre testate giornalistiche o blog o che siano state comunque divulgate da fonti qualificate, come nel caso degli appartenenti alle Forze di polizia».
Distorsioni e abusi, quindi, che continuano a ripetersi; tuttavia, non è mai troppo tardi per attuare un processo di sensibilizzazione, responsabilizzazione e, perché no, di “accountability” (art. 5 GDPR).
Lucia Di Crescenzo