La digitalizzazione delle imprese nell’era della c.d. Industria 4.0.: quali conseguenze sui lavoratori?
L’avvento della Quarta Rivoluzione Industriale ha inciso in misura molto differenziata sui sistemi produttivi dell’Europa e dell’Italia.
Fondata sull’adozione di produzioni intelligenti, frutto di tecnologie abilitanti e operative, basate su Internet, la Quarta Rivoluzione Industriale, detta anche Industria 4.0., propone tra i suoi obiettivi di ottenere incrementi di produttività, incoraggiare la formazione di sistemi di lavoro collaborativo ed ottimizzare le relazioni inter-organizzative degli ecosistemi industriali, forte di un percorso intelligente.
Come in tutte le rivoluzioni industriali, si assiste ad una trasformazione del settore economico che favorisce l’affermarsi nel tempo di un nuovo paradigma tecnologico: si passa da un sistema basato su agricoltura, artigianato e commercio ad un sistema industriale evoluto, contraddistinto dall’utilizzo regolare di impianti sempre più sofisticati, alimentati da diverse e nuove fonti energetiche, nonché dall’utilizzo integrato della robotica, dei computer quantistici ed ulteriori tecnologie.
La Quarta Rivoluzione Industriale, dunque, è alla radice di una serie di trasformazioni che coinvolgono la quasi totalità dei settori produttivi, incidendo su abitudini, stili e qualità di vita dei consumatori.
I pro della digitalizzazione
In questa era digitale profondamente mutato è il mondo imprenditoriale e del lavoro: i progressi dell’intelligenza artificiale e dell’apprendimento automatico hanno generato automatizzazione del processo di produzione attraverso l’introduzione di macchine intelligenti che funzionano, apprendono e reagiscono come gli umani.
L’uso crescente della tecnologia informatica e anche l’opportunità di fornire competenze attraverso piattaforme online sono stati, inoltre, in grado di creare nuovi modi di fornire competenze al mercato, nonché di spingere le imprese nei settori di investimento green e dell’innovazione, prevedendo anche incentivi che riguardano il settore software ed IT, la formazione e l’economia circolare.
La digitalizzazione delle imprese ha, poi, creato nuove professioni come, ad esempio, la figura dell’imprenditore digitale, che basa il suo business online e che quindi lavora nel digital e ne sfrutta i vantaggi competitivi generando profitti; o ancora la figura dell’e-commerce success manager, un esperto capace di far fronte alle nuove e improvvise esigenze che il mercato impone, alla continua ricerca di strategie per il successo e la crescita delle vendite online.
Numerosi sono, inoltre, i vantaggi prodotti dall’evoluzione tecnologica in favore dei datori di lavoro e dei lavoratori, tra cui l’abbattimento dei corsi di transazione, l’eliminazione delle distanze fisiche e geografiche, la moltiplicazione dei contratti atipici, la forte concorrenza tra lavoratori anche residenti in Paesi molto distanti tra loro, la maggior autonomia riconosciuta al lavoratore subordinato (da sempre considerato parte debole del contratto di lavoro) con l’introduzione della possibilità di lavorare in smart working, garantendo la medesima efficienza lavorativa; nonché un notevole innalzamento del tasso di occupazione: infatti le assunzioni per i ruoli connessi, ad esempio, all’e-commerce nel 2020 sono aumentate del 51% rispetto all’anno precedente.
I contro della digitalizzazione – il caso Amazon
La digitalizzazione porta con sé una serie di problematiche: innanzitutto il tasso di occupazione in rapporto all’affermarsi della robotica che incide sul mercato del lavoro, sull’istruzione e sulle politiche sociali a fronte di un costante invecchiamento della popolazione; in secondo luogo, pone questioni circa la responsabilità giuridica delle imprese, produttrici e utilizzatrici di tecnologia, ma anche dei lavoratori a cui sono richieste nuove competenze e capacità di svolgere nuove mansioni, magari particolarmente onerose; fino a toccare argomenti che mettono in discussione la dignità, l’autonomia e l’autodeterminazione umana.
In merito a ciò, rilevante il caso dei “braccialetti” elettronici brevettati nel 2018 da Amazon che dovrebbero, in teoria, guidare la ricerca di specifici prodotti nel magazzino rendendo più efficiente e meno gravoso il lavoro, ma che sono stati espressamente criticati perché consentirebbero allo stesso tempo al datore di lavoro di sorvegliare i suoi dipendenti, con particolare riferimento ai ritmi ed ai tempi di lavoro (il dispositivo geolocalizza il dipendente mostrando addirittura un conto alla rovescia relativo al tempo entro il quale il prodotto deve essere recuperato dagli scaffali. In altre parole, se sulla base dei dati raccolti dal braccialetto un dipendente dovesse risultare più lento di quanto l’azienda reputi normale, questi potrebbe verosimilmente incorrere in richiami o sanzioni).
Si tratta di un vero e proprio processo di tracciamento in tempo reale della produttività dei dipendenti, soggetti al comando di un algoritmo che genererebbe automaticamente eventuali avvisi o risoluzioni riguardanti la qualità o la produttività, senza l’intervento dei supervisori.
Tale algoritmo, nelle sedi americane, viene addirittura utilizzato per decidere se licenziare o meno un dipendente: è quanto si legge su The Verge, sito americano, il quale riporta una lettera scritta dall’avvocato di Amazon nel corso di una causa contro un ex dipendente: tra agosto 2017 e settembre 2018, nella struttura di Baltimora, Amazon avrebbe licenziato 300 dipendenti per non aver rispettato gli standard di produttività, così come prefissati dal device che gli stessi sono costretti ad avere al polso per tutto il turno di lavoro.
Numerose sono le perplessità scaturite da tale caso, soprattutto dal punto di vista della libertà e della privacy del lavoratore, su cui si è anche espresso anche il Garante Privacy, con provvedimento n. 479 del 16 novembre 2017, dichiarando l’illiceità di un tale sistema di controllo, non essendo «indispensabile» per lo svolgimento della prestazione lavorativa.
Conclusioni
Ai fini della tutela dei lavoratori “digitalizzati” è, dunque, necessario realizzare un determinato Data Protection Impact Assessment sulla tecnologia utilizzata, come previsto dall’Art. 35 della GDPR, che introduce il concetto di Data Protection Impact Assessment (DPIA). Ciò significa che bisogna valutare l’invasività della tecnologia, assicurarsi che vi siano tutele sufficienti per gli individui, verificare se la tecnologia sia stata adeguatamente testata e imputare le responsabilità eventuali.
Per quanto riguarda, invece, la figura del lavoratore in smartworking è fondamentale prestare attenzione alla recente cultura del “sempre connesso”, che può mettere a rischio la salute fisica e mentale dei lavoratori.
Proprio in relazione a ciò, il 21 gennaio 2021 il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza una lunga e articolata risoluzione nella quale si esorta la Commissione a presentare una proposta di direttiva che garantisca ai lavoratori il diritto alla disconnessione, definito come un “diritto fondamentale che costituisce una parte inseparabile dei nuovi modelli di lavoro della nuova era digitale”.
Si rende quindi necessaria, secondo il Parlamento europeo, una normativa dell’Unione che stabilisca requisiti minimi per il lavoro a distanza, primo tra tutti, appunto, il diritto alla disconnessione dagli strumenti al di fuori dell’orario di lavoro, nonché durante ferie, riposi e congedi.
Luigia Salvato