Lotta contro il cyberbullismo: l’Australia punta alla de-anonimizzazione
La dichiarazione di guerra.
Il Primo Ministro Australiano Scott Morrison lo scorso ottobre definì i social network dei veri e propri “palazzi di codardi”, riferendosi alle misure pro-anonimato adottate dai colossi del web. Tra gli obiettivi dichiarati dell’attuale maggioranza vi è quella di istituire una legge volta a bandire l’anonimato sulle piattaforme social, per limitare le aggressioni e le prevaricazioni tramite il web.
Insieme al ministro delle comunicazioni Paul Fletcher, il Primo Ministro pochi giorni fa è tornato sul tema del ciberbullismo con quella che è sembrata una dichiarazione di guerra.
Quali soluzioni potrebbe adottare l’Australia?
Non è ancora chiaro quali misure stiano studiando Morrison ed i suoi colleghi ministri, però – come spesso accade in questi casi – un approccio analogico potrebbe agevolare il lavoro: la KYC “knwo your costumer” è una procedura di sicurezza ampiamente utilizzata nei rapporti tra provider ed utenti ed ha la finalità di certificare l’identità del cibernauta, anche per scongiurare attività illecite o furti d’identità.
Tale pratica sta trovando ampissimi riscontri nel mondo crypto e dell’online banking, ma anche per l’acquisto di sim ed e-sim card. Insomma: conoscere il proprio cliente non è più una peculiarità dell’economia di quartiere.
Certo, il KYC non è una soluzione priva di rischi ed aggrava molto l’organizzazione interna del provider, il quale dovrà predisporre stringenti misure atte a tutelare i dati di chi si sottopone alla procedura, nonché tentare di contenere il più possibile le tempistiche di evasione delle richieste (ciò per scongiurare il pericolo che l’utente si spazientisca ed interrompa la procedura di iscrizione alla piattaforma).
La procedura KYC diventa, poi, una soluzione interessante per gestire le necessità di antiriciclaggio; del resto, le piattaforme social “vendono” visibilità tramite le ADs, monetizzando il traffico effettuato dagli utenti.
Facebook, come la quasi totalità delle piattaforme, è priva di controlli sull’identità all’ingresso ma, quando un utente decide di sponsorizzare i propri contenuti tramite la piattaforma di META, deve sottoporsi ad un procedimento di verifica dell’identità.
Cosa significherebbe attuare un controllo all’ingresso?
In fase di iscrizione presso le piattaforme di social network, l’utente dichiara di rispettare i requisiti previsti per l’accesso, dall’altra parte il provider (il quale ha interesse affinché nessuno resti escluso dalla sua community) non ha motivo di dubitare delle dichiarazioni degli utenti, né è tenuto ad alcun controllo preventivo sull’identità.
Ciò alimenterebbe l’inerzia delle piattaforme; d’altra parte, come ogni volta in cui si parla di controllo preventivo (cfr. Direttiva UE 790/2019 “Direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale”), è impensabile immaginare il benestare dei provider.
Per tutte queste ragioni (ma anche per quelle che in questa sede non si ha la possibilità di affrontare), le preoccupazioni di Scott Morrison sono senz’altro fondate; tuttavia, siamo davvero così sicuri che l’unica soluzione sia sempre e solo quella di puntare il dito e la penna (quella del legislatore) contro i provider?
Lungi dal voler negare le criticità di un mondo che è anche anonimo, a parere di chi scrive non può che essere indispensabile un’azione sinergica tra gli Stati e gli Operatori finalizzata al controllo degli illeciti, sì, ma anche alla sensibilizzazione degli utenti.
Dai report di Facebook risulta un tasso di proattività della piattaforma pari al 96,7%: significa che i contenuti sono stati rimossi prima ancora che gli utenti procedessero alla segnalazione.
Ebbene, seppur non possa parlarsi di controllo preventivo rispetto ai contenuti (essendo gli stessi già stati pubblicati, ma non segnalati) una tale efficienza è sinonimo di un progresso e si pone quale punto di partenza per future (nonché sperate) frontiere della tutela dei cibernauti.
Antonio Allocca.